Vedimi tu.

Vedimi tu, ché hai gli occhi densi, la fronte alta, il sorriso acceso.

Vedimi tu, ché hai consistenza, la grazia nel guardare, i giorni tutti interi tra le mani.

Vedimi tu, dalla finestra o dalla porta, dalle lenti degli occhiali, dal vetro consumato del bicchiere, dal cielo in una stanza, dalla bocca dello stomaco o dal cuore.

Vedimi tu, ché io mi perdo e tiro dritto, ché io non c’ho coraggio, non mi impegno mai abbastanza.

Vedimi tu, ché hai la faccia coraggiosa.

E hai lasciato una sola luce accesa.

Vedimi tu. Io ho il vento contro e anche Saturno e un poco il mondo intero.

Vedimi tu, ché mi nascondo bene e non metto mai le lenti, mi rintano e faccio guscio.

Tiro giù i capelli sulla fronte e non mi smuovo, faccio finta, sempre mento.

Vedimi tu, ché hai gli occhi belli e non mi ricordo più di che colore sono.

Stavolta il verde non importa.

Vedimi tu, prima che Parigi bruci e scada lo yogurt dentro al frigo.

Vedimi tu, ché hai gli occhi intensi e guardano lontano.

Vedimi tu, per quello che so dire.

 

Di spalle.

Ti ricorderai delle spalle.

Io delle spalle mi ricordo. Mi hanno detto. Più dei volti e della bocca, degli occhi e di colori marcati e variegati, più della forma definita delle mani, ti ricorderai delle spalle.

Delle spalle di più.

Andare via, insieme, tutti quanti in fila, ben ordinati e silenziosi o singoli, imperfetti, con le scarpe a fare peso di sudicio dolore sull’asfalto.

E anche l’uno ti sembrerà una folla, scomposta e dirompente. Di spalle, una fiumana, un torrente, tempesta di sabbia e tu lì nel mezzo attraversato da corrente. Notando la figura e bene il passo, la movenza, lo spazio tra te e quel che manca. All’improvviso inconsistenza e non si colma, non riempi niente.

Tra le sue spalle e la tua faccia tutto il tempo perso e perso il fiato, sprecato, levigato il naso, rotto il pianto, chiuso il senso.

Tra le spalle e il petto tuo tutta la distanza, la netta differenza tra forza a spingere e fragilità a tirare, vuoto a perdere ed esigenza immatura del dare.

Tra le spalle e i piedi tuoi tutto il tragitto fatto e quello sospeso, tapis roulant, biciclette, scale a pioli, strisce bianche, bucate le scarpe, treni dimenticati dai binari, milioni di sipari, il verde l’arancione e il rosse insieme, le scie delle comete, la segnaletica imbrattata da street art 2.0.

Due i piedi, scalzi.

Ti ricorderai della spalle, sue, illuminate dai lampioni che riportano a casa. Io delle spalle mi ricordo. Mi hanno detto. Più delle mani quando non tengono e quando troppo stringono, più della giacca di panno color verde manca-la-speranza, più del timbro di voce che assopisce nella testa e del blu sul soffitto sputato nelle notti tiepide d’addii e d’attese. Più dell’incavo al centro del petto, suo, evidente a verificar mancanze primordiali e del neo sul piede mio, invisibile a sottolineare trasparenze piene, pieno il tratto a definirci. Più dei dettagli e dei sospiri, dei cortili a primavera gentili e sani.

Ti ricorderai le spalle. Io delle spalle mi ricordo. Allontanarsi piano e in riservata danza, leggere e voluttuose. Allontanarsi veloci e in concitato segno d’abbandono, forti e coraggiose.

Io delle spalle mi ricordo, mi hanno detto, mettendoci la faccia.

 

Starci nelle cose.

Starci nelle cose per sentire sulla testa i confini a divorare. Un poco stretti e un pò perplessi, gli occhi come i giorni nelle mani. Lunga strada e lungo tempo a motivare. Starci nelle cose e starci tutto, tutto intero, ingarbugliato fino al collo dai pensieri e provare poi la fuga dalla stretta. Salvarsi un pò di testa.

E il buono lì sul fondo, liquido e incolore, a decantare. E io, io qui a guardare. E io, io qui a provare. Fare spazio a cosa pura, esaltare la natura dell’ultima parola pronunciata senza poi riuscire a convincere nessuno. Che un tulipano, un tulipano ha toccato la mia mano.

Di bianco, allora, t’avrei dato il vestito a primavera e luce intorno al polso per ridurre il frastuono della stretta prepotente. Di bianco t’avrei dato tempo addietro il mio passaggio, a coprire il nero delle notti insonni e miscredenti, poi il peso noto delle cose che non dici e ogni giorno nuovi vasi e molti fiori a corteggiare risvegli sconsolati.

Di bianco fogli da riempire, senza griglie, senza orari e senza attese e parole nuove a riempire il gusto di etimologie tirate a freno dalla fretta degli impegni maledetti. Di bianco ogni cuscino, una tenda alla finestra, cappello a mezza estate, scarpe in mezzo al verde, di bianco un cane e il suo padrone, un vestito da bambina a ricordarti infanzie pure e nessun rivolo di sangue che scende dalla fronte. Niente sporca. Bianco su bianco. Niente tocca.

Bianche le pareti di una casa solo tua e già riempita fino all’orlo del domani, priva di mancanze, esitazioni, notti insonni per l’animo viandante. E un materasso, solo uno, sempre quello, che ha parentesi di mano ad accogliere la testa e il corpo tutto, a fare scudo e un poco ramo.

Starci nelle cose, per sentire addosso il senso di un passaggio che smuove e tira sassi e non s’arrende e mi conquista e tutto vuole. E strada lunga a motivare, a costruire in lungo e in largo la grandezza che già vedo quando bevi latte a grandi sorsi e grande sei e la paura di sbagliare sempre mi trattiene. Di bianco un marciapiede e strisce pedonali a fare spazio, a darti tregua, a dire vola. Starci nelle cose. Divenire ancora.

“E non c’è niente da capire”

Non aspettarti niente ché a scudi si aggiungono spine. E poche rose, poche cose, parole sparse o messe in fila per gusto di suono nella bocca, per pigrizia un po’ d’azione quando manca il buonumore.

Niente dietro l’insulto piantato sul costato, dietro al nero un po’ degli occhi quando è sera e cola la matita. Non cercare niente ché non c’è posto per approfondimenti improvvisati sull’ anima in pena da una vita, non c’è storia a reggere distruzioni della mente radicate anche nel cuore.

Non aspettarti niente ché alle forze si aggiungono fragilità sottese, molte prose della domenica mattina, la musica in sottofondo per non farsi sentire lì a tremare e silenzi ingoiati come caffè caldi a colazione, le pause trincerate e virtuali, i miei giorni tutti uguali.

Niente da capire o a cui partecipare, non lo slancio delle mani quando cercano un appiglio, non lo scoglio in mezzo al mare a fare da cuscinetto in mezzo alla tempesta. E s’alza il vento se ti affacci un po’ a vedere, un po’ a sondare dove verte l’incoscienza che domina i pensieri a Primavera, quando mi spoglio dall’ inverno e non mi basto, non mi sento. Niente da decidere con esitazione della gola ché al tuo vacillare io t’ho spinto indietro e proprio fuori.

Non aspettarti niente ché a sorrisi si aggiungono tradimenti. E poco cioccolato, poco senso.

Non aspettarti niente ché a tempo ho già investito tutto, tutto l’essenziale e il più fecondo.

E poco altro.

Altro niente.

Glossari.

Di un glossario aperto in pieno petto ti farei dono, se potessi. Come di una spia luminosa ad abbagliare il concetto che la parola si porta dietro e dentro. Del mio essere inadatta a questo tempo privo di definizioni, di premure nel parlato violento e giovane nel gusto, forse abbandonato.

Di un glossario aperto in pieno petto ti farei dono, se potessi. Per dirti in cuor mio dove spinge la parola amore e quanto lacera il confine tra il  giusto dare e la pretesa insana dell’avere. Per cerchiare in rosso il ricordare quando torna al cuore e barrare in blu il dimenticare che si toglie leggero dalla mente. Ti farei dono del mio mare e quattro sarebbero  le parole per poterlo definire, stando ai greci, stando al gusto del sentire che mi porto addosso per averlo attraversato negli occhi di un mio figlio quando morì annegato.

Di un ponte tra le cose, tra il senso e la sua forma già compiuta o in divenire. Per aprire una finestra su quanto ancora mi tormenta il mio sederti accanto con costanza, essere assidua, lì presente ancora, felice solo quanto basta. Ti mostrerei, fino a tremare, la parte consumata delle mani ché a prendere e tenere stretto, per dispetto, mi è stato tolto tutto.

Di un glossario aperto in pieno petto ti farei dono, per rendermi leggero lo sforzo della conoscenza che mi spetta e sempre voglio, sempre manca. Carenze che supplisco con solitudini di carta, con fogli un pò sgualciti dalla domenica mattina, con te che non mi ascolti e non mi vedi, più non mi comprendi. Porte sempre chiuse che respingono il dono di maniglie per il fuori.

Di un glossario aperto, a far luce sul mio essere inadatta a questo tempo, a noi diversi e silenziosi, forse muti e spaventati.

Ti abbraccerò.

Ti abbraccerò, quando saranno le 7.24 e le 15.32, lunedì. Il 24 di dicembre, il 2 di luglio, il 17 di febbraio verso sera, anche dopo pranzo quando avrò poco da dire e molto da fare. Ti abbraccerò portando avanti quanto sono, non senza la difficoltà di scaricare sul tuo il peso del mio corpo. Non senza l’impegno di accogliere la pienezza del tuo slancio.

Ti abbraccerò, incurante del pericolo ingombrante dell’incontro, del movimento oscuro dei pensieri. Quando sarà buio o a mezzogiorno, senza esitazioni sul bisogno. E avremo modo per riempire una parentesi a volte un po’ forzata. Avremo modo di guardarci e poi rifarlo, ripetere la stretta ora convinta e affamata. Avremo modo e io ti abbraccerò. Per prendermi il coraggio dalle tasche e farne scudo, per coprire con velluto la ferita sul costato. Per costruire una casa dentro quattro braccia, solo nostre.

Ti abbraccerò e saranno solo occhi o pagine di libri. Sarà vino rosso nelle sere di frastuono incontinente di anime felici. Ti abbraccerò e sarà cemento armato quella stretta. E non ci sarà mancanza. Non paura né rassegnazione. Ti abbraccerò senza conoscerti affatto sentendoti riproduzione ben riuscita di me stesso. Me sarai e saremo due al mondo o forse tanti. Milioni. E senza fine. Il mare lì nel mezzo a ingigantire la portata dell’evento. Ti abbraccerò e ci saranno un caffè di troppo, una canzone per la strada, il letto a casa sfatto a perfezione, tre persone sedute al tavolino, un ombrello appena aperto da qualcuno. Un cane vagabondo che ci osserva, Elisa alla finestra, un fazzoletto sporco nella tasca del cappotto, il bicchiere d’acqua che ho dimenticato poi di bere. I suoi calzini verdi e una donna dai capelli troppo biondi o troppo rossi. Orecchini pesanti dimenticati nella borsa e piani alti da tirar giù con prepotenza. Ci saranno le mie attese e quattro mura a contenere il giorno nuovo e quello andato.

Ti abbraccerò. Così, per darmi storia e consistenza. E tu, alle 20.41 di una sera come tante, mi abbraccerai. E io, ancora, ti abbraccerò.

Esistere sui cubi. (Come ringraziare)

Provare a smettere, rinunciare. Togliere gli anelli dalle dita, sul tavolo posare insane costrizioni. Prendere tempo, tentare la pazienza. Lasciar fare gli occhi, trattenersi dal gridare. Pensare che rimane, macchia di birra sulla fronte, pensare che rimane, il sole, il centro, il nido ricreato, te stesso ancora in gioco, ristorato. Rinunciare alle attese, alle pretese, a fare punto sulle cose. Parole nuove, nuove lingue ad abbracciarsi, gli occhi scuri e il tuo blu, il suo verde traballante, il bianco che poi perdo quando cerco di fermarlo, le frasi senza verbi, le mani a costruire. I gesti a incantare questo mare. Parentesi estive a scardinare il quotidiano. Fermati che ti immortalo, che mi vedo, nei passi tuoi, su questo asfalto caldo. Fermati che in te mi sono ritrovato, piccolo e sincero, forse sano. Movimento in piazza, esistere sui cubi. In molti essere pochi, concentrarsi nell’insieme. Insieme divenire. Dare quel che hai anche se è poco, pensarlo grande ed essenziale. Poi un punto sembra tagliare corto, dire basta. Ma non mi frega, il tempo io lo vedo e lo stomaco sorride. Sazia la mia pancia del tuo passaggio inaspettato.

Non regge un cazzo.

Intorpiditi gli occhi, quasi tostati, come fette di pane. Le giornate così vuote fino a traboccare, ricolme, delle inconsistenze umane, tutte mie, tutte reali queste mancanze. Scrostati i muri dalle poesie in emancipazione dal reale, buttati a terra i giorni, i sentimentalismi inutili, le pretese incastrate come i lego, a caro prezzo. Intorpiditi gli occhi, per aver atteso acqua a rinfrescare terreni aridi, secche guance. L’asfalto poi si scioglie e cola il trucco, con la torre di Pisa, quella degli asinelli, quella Eiffel, quelle gemelle, quelle di cartone, non portanti, quelle disgraziate, pure quelle disegnate. Non regge un cazzo, d’estate. Non i lampioni ai bordi delle strade, non i portici se manca la pioggia, non le insegne con le scritte bianche, non i lampadari se fuori è troppa luce. Non reggono i balconi senza gente, non il palloncino gonfiato con stupida fatica, non il posacenere sul tavolino di legno ardente. Non regge il controllo nelle menti esasperate, non il fiore tra le mani, non la fiamma della candela né la candela. Non regge il gioco o regge poco. Non tiene il mascara sugli occhi belli o sempre intorpiditi, né la cioccolata fuori dal refrigeratore; non il dentifricio né il consiglio ben dosato, non il mare dentro il mare, o il sugo sulla pasta. Il ciuffo sulla fronte, gli occhiali sul naso martoriato, il piede nella scarpa, le lenzuola sul corpo ribollente, il caffè nella tazzina. Il pigiama, la maglietta, il vaffanculo nella bocca, la collana al collo, il pollo nella padella. Non regge un cazzo, d’estate come, poi, d’inverno. Intorpiditi gli occhi, quasi tostati, come il pane. Senza fette di salame.

Disfare.

Sfatto il trucco, come la sera, prima di iniziare, prima delle notti giovani, bolognesi. Triste la sera, come gli occhi, dopo il tempo pieno, le pagine girate, girati gli angoli impossibili del pensiero divergente. Fuori schema, correre di opposizioni e slanci, per non lasciarsi andare e mani cercare, mani mancare. Le alternative valutare, scrutando il vuoto. Il passo dopo il tuo, il mio. In attesa, ancora fermo sul marciapiede, il pensiero divergente. Lo spazio chiuso delle mancanze, dei cortili senza fiori, dell’estate coi temporali, di ieri e ancora domani. Sfatto il foglio, come il principio sopravvalutato, prima di finire, prima di un domani incerto. Calda la sera, come i respiri intensi e introspettivi. Controproducenti. Il punto di fuga basso degli occhi belli, delle cose che non sai o sai già tutte, delle resistenze delle mani, dei bus di passaggio a portare via, a cancellare. Cancellare con costanza e avanti il prossimo, gradino, scoglio, schiaffo, peccato, bacio, rimorso, consiglio, sguardo, tappeto, soggiorno. Fare e disfare, per mantenere in vita il verde e i miei giardini senza fiori. Che sfatto resta il trucco per il nuovo giorno. E cancellare.   

Sospetti vuoti.

Sospetti vuoti dello stomaco, senza farfalle né bocconi pieni. Dopo la notte dei sogni tristi, degli abbracci divorati, della sua camicia bianca e il mio vestito a fiori. Dopo il giorno del frastuono, del confuso divenire, del tentare l’apertura di un sistema che puzza di futuro. Dopo l’abbuffata a pranzo e dopo aver cantato tutto il vino, spogliato il fondo dell’ennesimo caffè. La mia tazza mi deprime, quel che resta mi consuma. Volti inquieti tra le scarpe del mercato, tra le borse, tra i bambini, i fiori, i pani e le collane, le creme troppo untuose, le parole, le voci sconosciute e prostitute, le valigie, i treni e i vaffanculo rimandati. Il suo pensiero. Il pensiero che mangia i giorni grigi e grigio sputa, forse nero. Forse temo. Cercare poi la fuga disperata dal labirinto che sorride mentre al centro ti conduce. Tagliare via le nuvole e spazzare bene il cielo, ricomporre un nuovo dio, che sei stanco di morire. Sospetti vuoti sotto i piedi, senza cemento né libri a sollevare. Nessuna serratura, niente da spiare. Dopo gli slanci del venerdì spietato, fermare il tempo e farci pace o non farci niente. Tirare giù il calendario e anticipare poi la notte, strappargli dagli occhi il nero e ripartire.